Fino a quando ne parlano i medici o i veterinari, magari poveri in istruzione giuridica, si può discutere. Quando inizia a criticare un legale, un Cassazionista, le cose sono diverse.
Dal 1 gennaio decorre l'obbligo di formazione continua per gli avvocati, fondamentalmente usando lo stesso sistema idiota dell'ECM, l'Educazione continua in Medicina.
Alcuni giorni fa, l'Avvocato Tommaso Servetto ha pubblicato su La Stampa di Torino alcuni suoi commenti, che gentilmente mi ha concesso di ripubblicare sul blog. Una lettura un po' più lunga, ma ne vale la pena. Tra l'altro scritta molto bene. Che introduce nuovi dubbi sull'ECM. Oltre alle critiche sostanziali, che poi amplierò, se ne aggiunge un'altra, che riguarda il fatto che sul controllo da parte degli Ordini professionali ci siano dubbi di incostituzionalità. Poi ci torneremo su, ma per ora a voi l'articolo dell'Avvocato Servetto, che ancora ringrazio:
DOVERE DI AGGIORNAMENTO DEGLI AVVOCATI: DOVERE GIURIDICO, DEONTOLOGICO O POLITICO?
Dal 1° gennaio 2008 decorre il primo periodo di valutazione della formazione continua degli avvocati come da regolamento del Consiglio Nazionale Forense del 13.07.07.
Con tale dettato normativo il Consiglio Nazionale Forense ha introdotto il dovere, per gli avvocati, di partecipare alle attività di formazione continua, così come disciplinata dallo stesso regolamento, attribuendo ai Consigli dell’Ordine il dovere di controllo.
Ai sensi dell’art. 3 del citato regolamento l’obbligo della formazione professionale continua è assolto con la partecipazione documentata ai seguenti eventi:
a) corsi di aggiornamento e masters, seminari, convegni, giornate di studio e tavole rotonde, anche se eseguiti con modalità telematica, purché sia possibile il controllo della partecipazione;
b) partecipazione a commissioni di studio o gruppi di lavoro;
c) altri eventi individuati dal Consiglio Nazionale Forense e dal Consiglio dell’Ordine;
d) lo svolgimento di particolari attività come quella di essere relatori ai convegni, avere effettuato pubblicazioni in materia giuridica, la partecipazione alle commissioni per gli esami di Stato di avvocato e, buon ultimo, il compimento di attività di studio ed aggiornamento svolta in autonomia che siano state preventivamente autorizzate e riconosciute dal Consiglio Nazionale Forense o dai competenti Consigli dell’Ordine.
Ai sensi dell’art. 6 delle disposizioni in commento il mancato assolvimento dell’obbligo formativo costituisce illecito disciplinare la cui sanzione sarà commisurata alla gravità della violazione.
Le disposizioni in parola vengono ad individuare due importanti novità nel panorama forense: la prima è che la formazione professionale può avvenire solo attraverso i criteri individuati dal governo professionale; la seconda che l’inadempimento dell’obbligo formativo costituisce illecito disciplinare.
Se si può, anzi si deve, accogliere con entusiasmo la seconda delle citate innovazioni che viene a specificare delle regole molto generiche contenute negli artt. 12 e 13 del codice deontologico: “L’avvocato non deve accettare incarichi che sappia di non poter svolgere con adeguata competenza”; non può essere esente da alcune osservazioni critiche la prima.
La critica discende dal fatto che le regole emanate dal governo dell’avvocatura sono più di facciata che di vera sostanza perché non vi è nessuna verifica dell’effettivo e concreto aggiornamento del professionista bensì solo la verifica che lo stesso abbia partecipato agli eventi individuati raccogliendo quelli che, pomposamente chiamati crediti professionali, si possono chiamare più umilmente punti, almeno 30 punti ogni anno.
Non importa se il professionista entrato, dopo avere pagato il diritto di accesso, alla sala convegni si dedichi alla lettura dei quotidiani (magari sportivi) anziché al gioco della play – station o a trasmettere e ricevere messaggini telefonici (meglio se amorosi) l’importante è che abbia partecipato al convegno, pagato e raccolto i punti (non è neanche previsto l’obbligo di applaudire il relatore).
Il Consiglio dell’Ordine attesterà alla collettività che quel professionista offre il massimo delle garanzie professionali e la forma è salva (Decoubertianamente l’importante è partecipare).
Se invece il professionista, scrupoloso e zelante, cura costantemente la propria preparazione ed il proprio aggiornamento professionale utilizzando canali diversi da quelli previsti dal regolamento come i giornali e le riviste specializzate, banche dati e monografie tematiche, dovrà essere sanzionato con una delle sanzioni, previste dalla legge professionale del 27 novembre 1933, che vanno dall’avvertimento fino alla radiazione. In sintesi chi non partecipa ai convegni e tavole rotonde potrà anche essere radiato dall’albo!
Allora non è vero che viene sanzionato il mancato aggiornamento professionale, bensì la mancata raccolta dei punti attraverso la partecipazione ai convegni!
Mi sembra così dimostrata la prima osservazione critica: la declamata formazione professionale è più forma che sostanza, anzi solo forma.
Non basta! All’art. 2, comma 5, della normativa in commento è previsto che per dare informazioni a terzi sulla propria attività prevalente il professionista debba avere raccolto, nell’anno precedente l’informazione, non meno di 30 crediti (punti) nell’ambito dell’esercizio dell’attività che intende indicare.
Capiterà che se un cliente mi chiede se sono un penalista dovrò dirgli: “Raccolgo 30 punti e ti rispondo l’anno prossimo!”. Non ha importanza per il nostro Consiglio che un avvocato abbia, in 20-30 anni di carriera, partecipato, magari con ottimi risultati per i propri assistiti, a centinaia di processi penali anche delicati dal punto di vista professionale e giuridico, che abbia trattato avanti la Corte di Cassazione spinose questioni di diritto, che abbia istruito ed educato alla professione decine di giovani, oggi brillanti avvocati, l’unico elemento di valutazione è che questi abbia raccolto i punti assistendo ai convegni!
Mi sorge una domanda: è costituzionalmente legittimo il dictat del Consiglio Nazionale Forense fatto proprio dai vari Consigli territoriali?
Non va dimenticato che la professione di avvocato è una libera professione intellettuale rientrante tra quelle indicate dall’art. 2229 c.c. e che l’art. 33 della nostra tanto vituperata costituzione (definita di recente dal Presidente della Repubblica una signora con qualche ruga ma ancora di aspetto giovanile) prevede la necessità dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale. Dopo avere superato l’esame di Stato il professionista iscritto all’albo ha il dovere di continuare ad aggiornarsi ma ha anche il diritto di farlo come ritiene più consono alle sue esigenze.
Se è vero, come è vero, che spetta all’Ordine professionale l’accertamento del possesso dei requisiti per l’iscrizione all’albo può questo impormi le modalità con cui debbo curare il mio doveroso aggiornamento professionale?
La risposta che mi posso dare è che tale imposizione venga a violare gli artt. 3 e 41 della Costituzione generando, l’illecito disciplinare così come previsto, una situazione di diseguaglianza tra soggetti che posseggono lo stesso grado di aggiornamento professionale ma prodotto in maniera diversa violando altresì il principio di libertà dell’iniziativa economica privata atteso che la gestione di uno studio è certamente da ricomprendersi tra le iniziative economiche libere.
Prescindendo comunque dalla correttezza costituzionale, la normativa è lesiva a mio parere del diritto di ognuno di studiare ed aggiornarsi secondo la propria organizzazione, metodologia ed iniziativa, non è chi non veda come la nuova normativa abbia un carattere meramente politico che, nascondendosi dietro l’esigenza della tutela della collettività dei cittadini, mira semplicemente a generare una nuova categoria di professionisti: quella dei convegnisti che saranno, col tempo, sempre più pagati a spese di chi è costretto, per legge, ad ascoltarli. Un balzello bello e buono.
Mi chiedo allora perché i componenti della categoria non reagiscano atteso che, a parte gli interessati quali i componenti degli Ordini ed i vertici delle Associazioni, tutti soggetti coinvolti, non ho ancora sentito un avvocato che apprezzi l’idea proposta (anzi imposta dal Consiglio Nazionale Forense) quale il regolamento impositivo delle specifiche modalità di aggiornamento professionale.
Che anche gli avvocati abbiano smarrito la proverbiale aggressività contro ogni forma di sopruso? Che anche gli avvocati, ormai intruppati nelle varie, forse troppe, associazioni si siano appiattiti ed abbiano smarrito la capacità di critica e di protesta?
Non lo credo, penso sia solo rassegnazione, ma gli avvocati non possono e non devono rassegnarsi perché è nella natura dell’avvocato; devono esercitare il loro diritto costituzionalmente garantito di difendersi, di difendere la loro autonomia e capacità organizzativa. Chi non sa difendere i propri diritti difficilmente riuscirà a tutelare quegli degli altri.
Un modo per far comprendere il proprio dissenso potrebbe essere quello di astenersi dal votare alle prossime elezioni dei Consigli dell’Ordine.
In conclusione per evitare l’obiezione di coloro che sostengono che le critiche debbono essere anche propositive propongo una valutazione effettiva annuale, a campione, per la verifica concreta del grado di aggiornamento professionale degli avvocati con relativa sanzione sospensiva per chi non superi la prova e che, magari, i Consigli dell’Ordine comincino a sanzionare coloro che si rendono responsabili di gravi errori professionali per imperizia e scarsa diligenza; cosa che fino ad oggi non mi risulta essere avvenuta.
La mia dignità di avvocato mi impone di astenermi da modalità di aggiornamento imposte che non garantiscono affatto una effettiva formazione ed aggiornamento ma sarò pronto ad accettare la sfida. Pur essendo io l’ultimo degli avvocati mi rifiuto, dopo 25 anni di professione, di essere trattato come un “bamboccione”.
Torino, gennaio 2008
Tommaso Servetto
Avvocato in Torino
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